Una domanda che spesso mi fanno quando sono in giro per l’Italia a raccontare le esperienze delle scuole all’aperto è quella se c’è abbastanza controllo da parte degli adulti, se i bambini sono al sicuro. Ovviamente rispondo che anche noi vogliamo che i bambini stiano se cursus – senza preoccupazioni e ci teniamo allo loro incolumità. Il dubbio però mi è sempre sorto se la parola giusta per raggiungere questo obiettivo fosse controllo: dal francese contrôle, registro, quindi registro tenuto in doppia copia. L’immagine dei maestri con il registro in mano fa parte dell’immaginario collettivo impresso nel nostro dna di ex alunni e capisco che abbia anche le sue valenze pratiche, ma per educare in Natura in modo naturale io credo che sia molto più importante vegliare che controllare. Essere vigile, sveglio, presente è questo il miglior antidoto agli incidenti e agli imprevisti. Per dirla con le parole di Pierre Hadot: la presenza è l’unica dea che adoro. L’occhio di colui che controlla è impregnato di paura e tensione, la sua attenzione è più protesa alla verifica che alla partecipazione attiva di ciò che sta accadendo. L’educatore è colui che è il custode del gioco dei bambini, colei che osservando modifica lo spazio, accarezzando o riprendendo i bambini con la forza dell’invisibile che scaturisce dalla relazione, le genesi dell’azione pedagogica. Mi rendo conto che per rinunciare al controllo ci vuole fiducia, e di fede oggi c’è n’è davvero poca. Quelle che erano le virtù teologali, le virtù che riguardano Dio: fede, speranza e carità sono quelle che sento più lontane dall’uomo contemporaneo. Lungi da me di consigliare un ritorno ad un passato di natura confessionale ma mi rimane la certezza che un bambino ha necessariamente bisogno di un ambiente intriso di queste virtù. Vivere più a contatto con la Natura aiuta le persone ad essere più libere dai condizionamenti delle pauure e ispira uno stare insieme più intimo, aperto e solidale.
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Ogni bimbo ha bisogno di una nave
Ogni bambino ha bisogno di una nave per navigare nell’immaginazione, perché anche quando si naufraga non si annega mai, le onde del destino ti faranno approdare in un isola dove imparerai a costruirti una capanna che diventerà un castello, che fatto di sabbia e sogni, non crollerà mai. Abbiamo bisogno di navigare in mari lontani per trascorrere le notti ad ammirare la volta celeste, a far rinascere il desiderio, il de sidus (senza stella), che è la premessa e la promessa della volontà. Ci sono momenti in cui vorrei già che navigassi in solitario per provare il gusto di essere l’unico capitano presente a bordo, ci sarà tempo, ora sei ancora piccolo ma ti lascio volentieri tenere un po’ il timone, non è mai troppo presto per imparare l’autonomia. Io sono il tuo albero maestro e tu quella vela che vedo dispiegarsi e danzare con i venti. Le gocce del mare, salate come lacrime, lucenti come rugiada sprizzano e brillano su di noi che aspettiamo che arrivino i delfini per fare ricreazione con loro. Nei nostri mari incontriamo i cigni selvatici e il loro candore mi ricorda il tuo primo giorno di scuola quando avevi paura di entrare, di varcare quella soglia che pensavi ti dividesse per sempre da mamma e papà. Tu nascesti quando io imparavo a leggere le prime carte nautiche, tu scegliesti me e io avevo paura di non esserne all’altezza. Come potevo raggiungerti? D’altronde tu profumi ancora di Universo, parli ancora la lingua dell’infinito, scrivi le rune degli elfi e le tue linee seguono le spirali delle galassie. I tuoi disegni parlano e io e i ciechi rimaniamo a bocca aperta accecati dalla meraviglia dei colori, barcolliamo io e i ballerini a seguire la coreografia delle tue linee, storditi rimaniamo io e i sordi ascoltando le tue grida di gioia.
Ci siamo presi per mano e il tatto è diventato conTatto, e io che pensavo che un capitano dovesse essere come il ghiaccio imparai la lezione che non è mai troppo tardi per commuoversi, per mettersi in cammino, non da solo ma con te.